FREDDO
E SOLITUDINE
La notizia della morte di Gino Rossi me
la telefonò Barbantini, al giornale, sul mezzogiorno del 16 dicembre
1947, qualche ora dopo che il pittore s’era spento. Una liberazione
per il povero artista impazzito, una grazia del cielo. Due giorni dopo
andai a Treviso, assieme a pochi amici veneziani, per assistere ai suoi
funerali. Era una mattina gelida e nebbiosa, e nella carrozza della filovia
non scambiammo che poche parole, tanto il freddo ci pungeva. Come si giunse,
trovammo ad attenderci davanti alla chiesa di Santa Maria Maggiore alcuni
artisti del luogo, e noi con loro, messi assieme, si fece un gruppetto
di una ventina di persone appena: altri non c’erano né vennero
dopo.
Rossi era morto all’Ospedale psichiatrico, e alle 10,30 arrivò
il furgone funebre, dal quale tre becchini in divisa levarono la bara,
trasportandola in chiesa. Subito cominciò la messa. La chiesa era
vasta e sembrava vuota. Quattro candele ardevano ai lati del catafalco,
dalle pietre nude del pavimento sentivamo il freddo salire per le gambe
fino a morderci lo stomaco, di tanto in tanto qualcuno di noi batteva
i piedi per riscaldarli. Accanto a me stavano Springolo e Ravenna, vedevo
anche Minassian, Marchiori, Carrain e qualche altro. D’un tratto
una candela si spense sul lato sinistro del cataletto, e un chierico corse
a riaccenderla, ma appena egli fece l’atto d’andarsene la
candela tornò a spegnersi. Di nuovo il chierico la riaccese. Il
prete celebrava svelto, quando si volgeva verso di noi vedevamo il suo
fiato fumare nell’aria. Spinta impetuosamente una porta laterale,
quattro o cinque ragazzi entrarono in chiesa con un enorme rumore di zoccoli,
sostando curiosi a guardarci per qualche minuto. Ancora la candela di
prima si spense. Finita la messa, tre preti vennero a celebrare brevemente
attorno al catafalco, quindi i becchini riportarono la cassa sull’autofurgone.
I preti alla testa e noi in coda, un minuscolo corteo s’infilò
per due o tre vie sconnesse, una delle quali era piena di pozze d’acqua,
e presto fummo fuori città. Allora i preti tornarono indietro,
l’auto partì veloce per il cimitero, e noi, muti e a capo
scoperto, si rimase soli sulla strada. Eravamo una ventina e non più
e Gino Rossi è stato certamente uno dei tre o quattro grandi pittori
italiani di questo secolo.
Silvio Branzi per "l'osservatore
politico letterario" Anno XV - Milano, novembre 1969 Numero 11
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